“Ciò che mi interessa è la calligrafia di un albero, delle tegole di un tetto, foglia per foglia, ramo per ramo, filo d’erba per filo d’erba.”
(Joan Mirò)
Fantasia e rigoroso lavoro, accortezza e generosità, immaginazione e severo controllo sono caratteristiche proprie della mentalità catalana e costituiscono utili indizi per spiegare l’opera e la personalità di Joan Mirò.
Un’opera piacevole allo sguardo, capace d’incantare adulti e bambini, ma che cela, nella sua apparente semplicità, la complessità di un mestiere forgiato nella dura lavorazione dei metalli. Figlio di un orologiaio e nipote di un fabbro, Mirò per molto tempo equiparò il proprio stile alla creazione fisica della materia: una disciplinata composizione di intarsi, intrecci e incastri policromi.
Nelle sue prime prove si può scorgere l’occhio di un uomo innamorato della sua città; esse parlano dei ferri battuti, dei cancelli e dei balconi di Barcellona, ammiccando alle decorazioni bizantine e alla tradizione romanica imperante.
Fino ai primi anni Venti del Novecento le composizioni di Mirò paiono emergere come colate laviche induritesi nelle forme, più che dipinte sembrano essere sbalzate, smaltate, tornite, presenze solide e granitiche ricomposte in una lucida e cristallina stilizzazione.
“Se vuoi venire a Parigi a combattere, allora è un grosso errore lasciare passare il tempo, per indolenza, e credere che domani le cose andranno meglio. Il domani, me ne frego: quello che mi interessa è l’oggi. In altre parole preferisco mille volte, te lo dico con tutta sincerità, essere assolutamente un fallito, mortalmente fallito a Parigi, piuttosto che galleggiare sulle acque putride di Barcellona.”
(Joan Mirò)
Nel 1920 Mirò si trasferì a Parigi dove conobbe Picasso, Max Jacob, Ernst, Tzara, Artaud, Prévert e i poeti surrealisti Breton, Eluard, Breton.
Qui Mirò cominciò a sviluppare lo stile che lo rese noto al grande pubblico, una sintassi fatta di vocaboli stralunati e fantastici, un repertorio di invenzioni frutto di un inconscio sereno e senza macchia.
La pittura di Mirò sprigiona lievità e candore, lontana dagli abissi paurosi e dalle intenzioni filosofiche, essa si muove leggera come un verso poetico, vibrando come un brano musicale nelle corde del nostro animo.
Alambicchi, pentagrammi squassati, aquiloni, palloni, fiori, maschere, buffi mostri, un bestiario giocoso popolato di pesci, gatti, mucche uccelli, e poi ancora fiocchi, maschere, scale, stelle, strisce, scritte, micro e macro organismi: note figurate di una grandiosa ed equilibrata sinfonia compositiva.
Con straordinaria armonia le immagini si dispiegano nello spazio, occupando ognuna il posto che le è proprio di diritto: capricci che si librano e si incontrano, si spandono e si chiamano l’un l’altro, festeggiando carnevali continui.
“Mirò era la grande libertà. Qualcosa di più aereo, di più libero, di più leggero di tutto quanto avessi visto. In un certo senso era assolutamente perfetto. Non poteva fare un punto senza farlo cadere nel punto giusto. Egli era talmente pittore che gli bastava lasciar cadere tre macchie di colore sulla tela, perché essa esistesse e costituisse un quadro.”
(Alberto Giacometti)
Forme organiche e biologiche ispirate, prima ancora che dal clima surrealista, dalla sua origine umile e campagnola, dall’attaccamento alla terra, a quell’ambiente rurale della località catalana di Montroig dove Mirò trovò la sua prima ed autentica vocazione all’arte. Lontano dall’impegno politico, anche di fronte all’orrore della guerra civile spagnola, Joan Mirò con paziente meticolosità e la dedizione di un miniatore, sviluppò un talento insito in una stupenda e celeberrima generazione spagnola, tanto ardente quanto malinconica. Rifugiatosi nei meravigliosi meandri della sua fantasia, egli rimase in quello stato di grazia pura, preservando l’ingenuità del suo immaginario e toccando l’intatta bellezza di quei colossali verdi, arancioni, rossi e profondissimi blu.
“Più del quadro in sé conta quel che esso emana e diffonde. Se viene distrutto non importa. L’arte può anche morire, ma quel che conta è che abbia sparso semi sulla terra.”
(Joan Mirò)
“Davanti a un albero sento una violenta emozione, come qualcosa che respira, che parla. In un certo senso anche l’albero è umano.”
(Joan Mirò)